Omelia per l’Apertura del Giubileo della Speranza
Carissimi, siamo qui in tanti, rispondendo all’invito del Papa, per iniziare insieme come comunità diocesana questo Giubileo. Da tanto tempo parliamo del Giubileo e dell’Indulgenza Giubilare, ma incontrando le persone ho la sensazione che ne abbiamo un’idea spesso vaga e con degli aspetti non proprio positivi. Vorrei davvero che, come racconta il vangelo di questa sera, potesse venire Gesù tra noi a farci da maestro e parlare con sapienza, ma anche con la semplicità di un ragazzo di dodici anni. Il linguaggio che la Chiesa usa solitamente per spiegare l’indulgenza prende le sue parole dal mondo del diritto, parliamo di: colpa, di pena, di assoluzione o di condanna. Questo linguaggio ci da un senso buono di giustizia: che nel mondo Dio porta ordine ed equilibrio. Ma vedere Dio come un giudice potrebbe farci dimenticare che, soprattutto, il nostro Dio è il Padre di Gesù ed il Padre nostro.
Un altro linguaggio che usiamo è quello dell’economia. A cominciare dal Padre Nostro in cui diciamo “rimetti a noi i nostri debiti” per parlare del perdono dei peccati, o dicendo che vorremmo “lucrare” l’indulgenza, una parola arcaica che significa guadagnare, ottenere un cospicuo interesse spirituale da qualche piccola buona azione compiuta. È un linguaggio ben comprensibile, che ci aiuta a pensare che vivere la fede sia un buon affare, anzi ottimo. Ma rischiamo di pensare Dio come un contabile, con il suo registro di cassa acceso, che tiene costantemente nei nostri confronti il conto di dare ed avere. Il Padre di Gesù, il Padre nostro invece è generoso, non tiene i conti e come dice Gesù: fa splendere il sole o manda la pioggia benefica sia sul campo del giusto che su quello del peccatore.
Quale diverso linguaggio potremmo allora cercare di usare per parlare dell’Indulgenza? Nel vangelo Gesù usa spesso il linguaggio della relazione familiare: descrive il mondo come una grande famiglia di fratelli che hanno un unico Padre. Un Padre, come racconta una famosa parabola, tanto generoso da distribuire la sua eredità quando ancora è in vita, e sempre capace di riammettere in famiglia chi se ne è volontariamente allontanato senza motivo. Il peccato è così allontanarsi dalla relazione e dalla collaborazione al bene della comune famiglia. Allontanarsi dal Padre e dai Fratelli, per cercare gioia in una vita che rincorre ricchezza, piaceri, ozio, relazioni fugaci e senza responsabilità. Una vita nel peccato è una vita senza Dio e senza Fratelli, da soli ed egoisti, anche se siamo contornati da una folla di altri tutti soli ed egoisti. Anche se siamo in una festa perenne, dove tutti sfruttano gli altri, finché c’è da sfruttare. La vita nel peccato a ben vedere, non è una bella vita, se non per qualche iniziale momento.
Nella parabola del Figlio prodigo Gesù spiega benissimo come funziona il peccato ed anche come funziona il nostro pentimento, che è sempre fragile ed anche interessato. Il Figlio peccatore torna a casa più per avere da mangiare che perché davvero pentito. E qui il Padre fa il primo miracolo della misericordia: il suo perdono è così generoso e bello che il Figlio si pente davvero e torna in casa, non come servo, ma come figlio. Questo miracolo della misericordia accade ogni volta che ci confessiamo e riceviamo con fede il perdono di Dio. Ma il male che abbiamo immesso nel mondo e soprattutto con cui abbiamo infettato chi ci sta più vicino, ha degli effetti grandi e negativi. Quella famiglia, lacerata dal peccato del Figlio più piccolo, resta divisa. Il Fratello più grande non è stato più capace di vivere sereno col Padre. Dalla fuga del fratello sognava di fare festa, ma non ha mai avuto il coraggio di chiedere al Padre neppure un capretto per fare un arrosto con gli amici. Forse si è anche roso di gelosia, per quella tristezza sul volto del Padre a cui il figlio fuggiasco mancava ogni giorno. Per questo non entra in casa. Per questo la festa del perdono manca di un pezzo importante.
La parabola ci dice che perdonare il peccatore non basta. C’è del male che è entrato nel mondo ed ha fatto ferite non rimarginate. Questo ci ricorda il Giubileo, parlando di colpe assolte, ma di pene ancora da sanare. E qui succede che, contro ogni nostra aspettativa, il Padre si mette di nuovo lui per primo in cammino, si fa Pellegrino di Speranza andando incontro al fratello maggiore per sanare, con un dono d’amore nuovo e del tutto gratuito, le ultime conseguenze del peccato.
Questo è il Giubileo. Prima di tutto un nuovo ed inaspettato dono d’amore di Dio, che vuol cancellare anche le ultime conseguenze del male. La parabola si interrompe a questo punto, non ci dice se il fratello maggiore si fa guarire il cuore arrabbiato dall’offerta di amore del Padre. Forse perché a questo punto del Giubileo tocca a noi, figli peccatori, farci Pellegrini di Speranza, lasciare per un attimo la festa del perdono ritrovato, per andare verso il fratello che abbiamo ferito col nostro male e cercare di riparare, imitando il Padre con una nuova offerta di bene, di amore, di servizio e di condivisione.
Le opere di bene che il Giubileo ci propone sono: atti di amore a Dio con la preghiera di lode, atti di amore ai fratelli con la preghiera di intercessione, atti di carità, atti di fede, atti di speranza, che cercano di ricucire quell’armonia della famiglia umana che i nostri peccati hanno lacerato.
Qual è allora nella parabola la Porta Santa? È la porta di casa, la casa della famiglia dei figli di Dio, ma prima di tutto la porta di casa di ogni famiglia. Stasera, varcando la porta di casa, riflettete che varcate una Porta Santa, dove portare, con l’aiuto della grazia del Giubileo, un nuovo perdono, un nuovo desiderio di bene, l’inizio di un nuovo Pellegrinaggio di Speranza da fare insieme. Andando tutti verso il Padre celeste, ma andando anche gli uni verso gli altri, con il desiderio di invitarci a vicenda ad una nuova festa del perdono e della famiglia ritrovata. Buon Giubileo della Speranza.
+ Nazzareno Marconi
Vescovo di Macerata