2023/03/10 3° Quaresimale

Terzo quaresimale: L’accoglienza
10-03-2023

Le prime due colonne su cui si regge la parrocchia esaminate finora: la domenica ed i sacramenti nelle età della vita, possono essere idealmente unite da una comune attenzione alla dimensione esistenziale del tempo. Infatti, abbiamo riflettuto su come la parrocchia possa e debba relazionarsi con i tempi in cui si svolge la vita delle persone: la settimana e le età della vita.

Nell’analizzare la terza colonna della parrocchia cioè l’Accoglienza, di fatto passiamo alla dimensione esistenziale dello spazio. Accogliere infatti è: fare spazio a qualcuno che passa. Si pone così per noi il problema del rapporto tra la parrocchia e gli spazi di vita delle persone, il territorio e chi vi risiede. Riflettere su questo tema diventa particolarmente complesso in un tempo come il nostro in cui i rapporti tra le persone ed il territorio, i luoghi di vita, il concetto di vicino e lontano, sono particolarmente cambiati rispetto al passato.

Lo spazio e la vita di oggi.

Partiamo dalla visione classica, poi cercheremo di identificare le novità ed i necessari correttivi per definire bene il rapporto tra la vita delle persone e gli spazi in cui questa vita si dispiega.

Il rapporto tra parrocchia e spazio della vita è stato sempre compreso nell’immagine che: “la parrocchia è la casa di Dio e dei cristiani in mezzo alle case degli uomini”. Per questo la parrocchia è il primo luogo dove andare, per chi cerca Dio e per chi cerca l’amore cristiano. Chi cerca spiritualità e carità, dovrebbe sempre sentirsi a casa quando giunge in parrocchia. E chi vuol mettersi a servizio di Dio e degli uomini per fare il bene, dovrebbe egualmente trovare qui il suo primo e più naturale luogo di impiego.

Come accogliere nello spazio parrocchiale chi vive accanto, per aiutarlo ad incontrare Dio ed i fratelli? Possiamo iniziare a comprenderlo lasciandoci provocare da un testo evangelico ricco di parabole, in cui si parla di un Regno di Dio che pian piano si inserisce nello spazio degli uomini: prima si sforza di farsi accogliere e poi diventa spazio accogliente per tanti, senza discriminazioni, ma anche senza rinunciare a fare verità fra vero e falso, tra bene e male.

Senape e lievito come stile dell’accoglienza. Lc 13,18-30.

18Diceva dunque: “A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? 19È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami”.

20E disse ancora: “A che cosa posso paragonare il regno di Dio? 21È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”. 22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Disse loro: 24“Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. 26Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. 27Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”.

 

Questo brano di Vangelo tratta il tema dell’accoglienza da due punti vista.

Il primo sguardo ci parla di come il mondo accoglie Cristo ed i cristiani e come questi si rapportano col mondo per farsi accogliere. Troviamo tre immagini: il piccolo seme di senape che entra nel terreno con umiltà e cresce pian piano, il pochissimo lievito che entra nella farina e la fa fermentare, la rende viva ed attiva dall’interno, ed infine Gesù che va nelle case e nelle piazze degli uomini ad annunciare con umiltà e familiarità il Regno di Dio. Tre icone che insegnano l’arte di farsi accogliere, fondamentale per annunciare negli spazi di vita del mondo il vangelo. L’evangelizzazione non è una guerra di conquista, o una campagna pubblicitaria aggressiva. È invece l’offerta umile e delicata di un messaggio e di una testimonianza al mondo. Il rapporto della chiesa con i territori esistenziali degli uomini non si attua con un “conquistare o rivendicare degli spazi, ma con l’attivare processi” di crescita in uno spazio che ti accoglie, come ha più volte ribadito Papa Francesco (Cfr. Discorso del 21-12-2019).

Il personaggio anonimo che nel nostro brano interroga Gesù affronta invece l’accoglienza da un secondo punto di vista, cioè nella forma attiva: Dio a chi apre la porta del suo Regno? A tanti o a pochi? L’accoglienza nel popolo dei salvati deve essere esigente e selettiva, o ampia e quasi senza alcun discernimento? Gesù nella riposta parla di una porta che è stretta, ma almeno all’inizio non è chiusa!

L’accoglienza è così offerta a tutti, anzi come racconta la fine del brano, saremo meravigliati di quanto l’offerta di accoglienza di Dio potrà riunire anche gli ultimi della nostra lista di accoglibili. Al tempo stesso, chi opera il male troverà alla fine la porta chiusa. L’accoglienza, infatti, non può essere senza criterio e senza verità, per il puro desiderio di riunire una massa più grande di persone. Carità e verità debbono guidare sempre insieme il tema dell’accoglienza nella Chiesa.

L’accoglienza ecclesiale, infatti, vuol creare un gruppo di persone che condividano la ricerca del bene, non di semplici commensali desiderosi di stare allegramente insieme.

La parrocchia deve essere accogliente.

Come appare chiaro la parrocchia che vive il vangelo non può non essere il luogo dell’accoglienza e dell’accoglienza generosa e fiduciosa, ma anche di una accoglienza di qualità, che si propone di costruire un comune obiettivo di bene, non semplicemente una compagnia di buontemponi.

Accogliere significa fare spazio e volgersi per primi a quanti sono prossimi nello spazio. Pone perciò il problema del rapporto tra la parrocchia, il territorio e chi vive in quel territorio. Pone il problema dell’ampiezza, dei confini, di chi è vicino e chi è lontano, evangelicamente di “chi è il mio prossimo?”.

Oggi questo si innesta in un problema più grande del rapporto tra le persone e gli spazi esistenziali. Infatti, il mondo e le persone sono cambiati rispetto al tempo della “civiltà delle parrocchie” nel loro rapporto con lo spazio di vita, per due principali motivi: la grande mobilità e la pervasiva presenza dei media e dei social. Oggi accanto allo spazio reale esiste infatti un nuovo spazio, quello virtuale, che non è però meno significativo del primo per la vita di molti.

C’è oggi un nuovo rapporto della gente col territorio. Il territorio esistenziale di ognuno di noi si è fatto molto ampio, per la grande mobilità che la vita richiede. Questo territorio poi ha assunto una connotazione virtuale, per i media che cambiano radicalmente il concetto di vicino e lontano. Cerchiamo di vedere le cose con ordine.

Un nuovo rapporto della gente con il territorio.

L’idea classica della parrocchia come luogo di accoglienza era definita dall’idea di “parrocchiano”: una persona che risiede entro i confini della parrocchia. La parrocchia accogliente era così il luogo della fede dove prima di tutti “il parrocchiano” aveva il diritto di “sentirsi a casa” nel suo cammino di fede.

Oggi la vita porta tutti noi a risiedere in un luogo, ma a lavorare, studiare, divertirsi, curarsi ecc. in molti altri luoghi, a volte anche lontani. Ciò comporta la difficoltà a fissare con un minimo di senso e di precisione i confini della città, del quartiere, del paese ed ancor più difficile è stabilire il suo dentro e il suo fuori: chi vive la città non è detto che coincida con chi vi abita.

Chi è mio parrocchiano? Si domanda spesso un parroco. Non lo è forse di più chi interagisce ogni giorno con noi, anche se ha residenza ed abitazione a chilometri di distanza, rispetto a chi risiede nel territorio della parrocchia, ma ci vive solo la notte quando torna a dormire a casa?

Pensate a quanti bambini hanno i nonni in parrocchia e quindi: vanno nella scuola davanti alla chiesa, passano il pomeriggio in oratorio, ma la sera i genitori che lavorano se li riportano a cena ed a dormire altrove. O ai tanti figli di genitori separati, che alternano le domeniche e quindi le potenziali parrocchie di riferimento.

Una saggia lettura delle leggi della chiesa permette già soluzioni elastiche ai problemi burocratici, ma la problematica generale di una accoglienza che non può semplicemente ripetere le soluzioni del passato rimane.

Nuovi territori virtuali.

Il secondo elemento che ha modificato la nozione di territorio potremmo sinteticamente definirlo: la virtualità esistenziale prodotta dai nuovi media e social. Lo spazio di vita della gente oltrepassa lo spazio fisico-geografico nel quale vivono, sempre più in direzione di relazioni virtuali. La virtualità è addirittura la principale realtà per molte persone, una realtà estesa, potenziata, aumentata. L’amico di Facebook o il vicino in un gruppo Whatsapp possono abitare anche a centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Il concetto di vicino e lontano non sono più legati allo spazio: due persone sedute sul medesimo divano che chattano con “amici di internet”, fisicamente si toccano, ma sono di fatto lontanissime tra loro e vicine ad altri.

La pratica delle celebrazioni e delle catechesi in streaming durante il lockdown ha avvicinato a delle parrocchie tanti “parrocchiani virtuali”, alcuni anche più fedeli dei parrocchiani territoriali alle iniziative celebrative e catechetiche proposte. Come valutarli, che tipo di accoglienza viene loro offerta? Non è certo giusto “cacciarli” ora che stanno tornando i parrocchiani reali, anche se questo ritorno non è certo massiccio. Ma i parrocchiani “virtuali”, se non dobbiamo cacciarli, non dobbiamo neppure illuderli che vivere la fede in una “parrocchia virtuale” sia lo stesso che viverla in una parrocchia reale? E soprattutto poiché la prima è certo più comoda e forse attraente, non rischiamo di favorire la crescita di una fede “virtuale” e non reale tra i nostri credenti?

Chi ha già la risposta a questi problemi l’ha elaborata teoricamente, deducendola da principi teologici e pastorali. Ma dovremmo anche cercare una risposta che nasca dalla concretezza del vissuto, per non cadere nell’ideologia, questo però richiederà ancora tempo e pazienza.

Nuovi legami sociali: le tribù.

Il rischio tutt’altro che piccolo è che questi due fenomeni uniti: la mobilità che rende nomadi senza una terra a cui appartenere, assieme alla smaterializzazione dei rapporti sociali, alla loro virtualità, porti alla ricerca di legami e di socialità basati solo sull’affinità, sul modello di “piccole tribù” connotate da interessi e da sensibilità comuni. La tribalizzazione del popolo credente è un bruttissimo neologismo sociologico, ma indica un indubitabile rischio. Di fatto non c’è niente di molto nuovo sotto il sole se già Paolo parlava di gruppi ristretti tra i primi cristiani identificati da “capi tribù”: “io sono di Paolo, io di Apollo ed io di Cefa” (1Cor 1,12).

Ora come allora si cercano sempre più quelli che ci sono simili, quelli che la pensano come noi. Scompare così un vero confronto di idee e di esperienze di fede diverse, che la parrocchia tradizionale ha sempre favorito tra chi viveva in uno stesso territorio. Oggi, anche per questi fenomeni, le divisioni tra le persone aumentano e si consolidano. Gli estremismi crescono e di conseguenza la capacità di accogliere chi è “altro da me” e lo sforzo di rendersi accoglibili da chi è diverso da noi, scompaiono. Basta guardare come il fenomeno del covid ha diviso i parrocchiani più estremisti tra: esagerati difensori di mascherine, gel e lockdown e sostenitori irragionevoli delle teorie del grande complotto per cui il covid non esisteva.

Non è stato per nulla un arricchimento di fede ed umanità, ma piuttosto un rischio pericoloso e forse non avvertito dalla gran parte della gente, perché stare tra simili ed allontanare gli altri, rende la vita più facile e le emozioni più gratificanti. Ma la vera fede matura o regredisce in questo contesto di chiusura ed esclusione? Quando l’esperienza dell’accoglienza reciproca si indebolisce, anche la vera fede cala.

L’emarginazione dei più fragili.

Poi questa relazione virtuale tra le persone favorita dai nuovi media, in cui è facile “spegnere l’amicizia” con un interruttore, porta a coltivare solo i legami facili. Così tante persone psicologicamente fragili e faticose da accogliere scompaiono dal mondo delle relazioni. Se infatti è difficile dire in faccia ad un vicino dal carattere scomodo che incontro ogni mattina per le scale: “non voglio avere a che fare con te!”; diventa molto facile farlo con chi contatto solo tramite internet. Così ci abituiamo sempre più a non guardarci in faccia, perché non abbiamo bisogno di relazioni reali sempre complicate, se ci gratificano relazioni virtuali, più facili ed intercambiabili.

L’accoglienza per tutto questo si è fatta difficile, dare vero ascolto all’altro è faticoso, non rifugiarsi nel virtuale è vincere ogni giorno una tentazione. Proprio per questo però l’accoglienza vera, fisica, concreta sta diventando una merce preziosa, una proposta interessante, una via di crescita umana e di formazione, della quale scopriremo sempre più la mancanza. Una parrocchia realmente accogliente è oggi un luogo complesso da gestire e da proporre, ma potrebbe essere molto più che in passato un centro di attrazione e di potente evangelizzazione.

Una parrocchia con un nuovo stile accogliente.

La domanda di fondo nel rinnovamento della parrocchia deve perciò toccare inevitabilmente il tema dello stile di accoglienza. Prima di essere una parrocchia in uscita, come vorrebbe il Papa, sarebbe bene che almeno fossimo una parrocchia con la porta aperta per chi prova ad entrare. E la porta aperta non è tanto una situazione fisica: una reale porta della parrocchia senza chiave. Infatti, è più importante la faccia che incontro se suono a quella porta, il sorriso o il grugno che sta dietro quella porta, piuttosto del fatto materiale se trovo la porta aperta o chiusa. La porta della parrocchia potrebbe tranquillamente stare chiusa per una saggia prudenza, se poi però suonando mi apre un volto accogliente.

Se la domanda diventasse più radicale ci potremmo chiedere: in un mondo di persone che sono sempre “altrove”, ha ancora senso far vivere una parrocchia territoriale?

È certo che per quanto mobili, gli uomini avranno sempre bisogno di un punto fisico di radicamento. Se la realtà si è smaterializzata, gli umani restano corporei. Il corpo resta una mediazione insuperabile.

Ma c’è anche una realtà nuova: un territorio sociale più che fisico, gli spazi relazionali che si creano tra le persone, mediati dalla mobilità e dalla virtualità, che sono dei “luoghi” non fisici, ma tuttavia concreti per chi li vive. Quando parlando della celebrazione dei sacramenti abbiamo visto come la parrocchia sa accompagnare le persone nelle varie età della vita, soprattutto facendosi vicina nei passaggi da una età all’altra, abbiamo individuato una nuova modalità di accoglienza.

Qui si tratta di capire che ci sono passaggi e punti di passaggio anche nello spazio e non solo nel tempo. Essere una parrocchia accogliente è essere presenti in questi luoghi, anche se sono virtuali, come i luoghi di vita costituiti dai social. Alla domanda: “Come evangelizzare in internet?” A parte soluzioni molto approssimative proposte da “personaggi” in cerca di visibilità, non sappiamo ancora rispondere con maturità e saggezza. Forma e contenuto dell’evangelizzazione sono molto legate tra loro e non si può evangelizzare semplicemente inserendo contenuti evangelici in una forma radicalmente pagana.

L’accoglienza della carità.

Il Convegno Ecclesiale di Verona del 2006 aveva parlato del bisogno di una nuova pastorale che si facesse presente non solo nello spazio fisico, ma anche negli ambiti di vita delle persone, spazi fisici più ampi dei confini parrocchiali, spazi sociali ed anche virtuali. I principali ambiti di vita a Verona erano cinque: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità umana, la tradizione, la cittadinanza.

La parrocchia oggi può svolgere una peculiare ed urgente accoglienza soprattutto nell’ambito della fragilità umana, presentandosi come spazio accogliente, sia reale che virtuale, dove sperimentare la carità cristiana, l’amore privilegiato per i poveri, i deboli, i fragili, quelli che nessuno vuole. Come dicevamo prima l’emarginazione sociale dei più fragili per tanti aspetti è in crescita: li si fornisce di cose, si tamponano i loro bisogni più immediati e fisici, ma si tende sempre più a metterli ai margini delle relazioni sociali. Più assistiti, ma meno stimati e protagonisti della costruzione del vivere comune.

L’azione caritativa della parrocchia è un grande ambito di evangelizzazione, perché è la proposta di accogliere con stile evangelico chi ha bisogno di aiuto. Di mettere al centro la persona che ha un bisogno, non di trovare una soluzione veloce al bisogno per “togliersi di torno” la persona. Questo fatto non ha grande necessità di spiegazioni. Basta leggere ed applicare il vangelo: “ho avuto fame e mi hai dato da mangiare” (Mt 25). Una parrocchia accogliente è prima e più di tutto un luogo in cui chi cerca spiritualità e carità, dovrebbe sempre sentirsi a casa. E chi vuol mettersi a servizio di Dio e degli uomini per fare il bene, dovrebbe egualmente trovare qui il suo primo e più naturale luogo di impiego.

La parrocchia non deve certo sostituirsi alle strutture assistenziali che una società giusta deve avere. La Caritas parrocchiale, di UP e Diocesana non è un doppione dei Servizi Sociali comunali, che anzi deve spronare e sostenere perché facciano con giustizia e sempre meglio il loro dovere. La Caritas deve essere a tutti i livelli uno spazio di accoglienza evangelica, dove la comunità dei credenti accoglie, come insegna la Regola di san Benedetto, ogni povero “come se fosse Cristo stesso” (RB 53). Deve perciò essere anche un posto dove ogni credente impara praticamente e concretamente a donare un po’ del suo tempo, delle sue forze e dei suoi mezzi per amare Cristo presente nella carne dei poveri.

I fondamenti di uno stile accogliente.

Possiamo provare a concludere il nostro percorso, indicando tre atteggiamenti di stile per la parrocchia che vive in un territorio, che costituisce perciò ancora e prima di tutto una presenza fisica e geografica, ma non si ferma a marcare confini e stabilire dogane di accesso:

Una presenza accogliente: cioè un luogo in cui “chiunque” si può rifugiare con il desiderio di ricevere da chi crede una testimonianza concreta di ciò in cui crede ed in cui spera.

Una presenza solidale: coltivando la crescita civile della città, stimolandone al bene tutte le forze positive, offrendo la propria leale collaborazione, perché la città diventi abitabile per tutti.

Una presenza umile: che sfugge ai criteri di pura efficacia tecnica e redditività economica, pur non essendo improvvisata ed incompetente, ma semplicemente sempre disposta ad offrire un ascolto affettuoso alla gente sola, ferita nel cuore e nel corpo.

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