2023/03/17 4° Quaresimale

La Festa cristiana
17-03-2023

Il quarto fondamento su cui si regge la vita e l’evangelizzazione della parrocchia è la Festa cristiana. Potrebbe sembrare esagerato dare importanza a delle occasioni di incontro di popolo che esternamente somigliano più a delle sagre paesane che a dei momenti di trasmissione della fede. Ma l’incarnazione ci insegna che la fede deve diventare carne e sangue, deve toccare la vita concreta dando sapore e valore cristiano ad ogni tempo ed ogni spazio significativo.

Anche questo quarto fondamento, che ritma certo “il tempo” della vita delle persone, perché le feste si segnano nel calendario parrocchiale, è però piuttosto legato alla presenza della parrocchia nello “spazio” di vita delle persone. La festa ha l’importante funzione di favorire l’incontro tra persone dello stesso quartiere o paese e di offrire un’occasione di memoria condivisa dei santi e dei luoghi sacri, che trasmettono un’identità primariamente locale.

La festa si fa sotto il campanile, ed unifica nella gioia quanti la celebrano, facendoli sentire un solo popolo che festeggia. Questo appuntamento bello però, potrebbe diventare occasione “campanilistica” e contraddire il tema dell’accoglienza analizzato l’ultima volta. Non basta fare musica e dare da mangiare per fare una festa cristiana. In questo ambito spesso rischiamo purtroppo di sprecare occasioni preziose.

Il Congresso ecclesiale di Verona, che ho già citato, poneva tra gli ambiti rilevanti della vita umana da evangelizzare proprio il lavoro e la festa, dando preziose indicazioni tutt’ora valide in questo campo. La parola di Dio ci introduce a meditare su questa quarta colonna della parrocchia.

Gv 7,1-13

1Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti, non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo.
2Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. 3I suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. 4Nessuno, infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!”. 5Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. 6Gesù allora disse loro: “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. 7Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. 8Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto”. 9Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea.
10Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto. 11I Giudei, intanto, lo cercavano durante la festa e dicevano: “Dov’è quel tale?”. 12E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni, infatti, dicevano: “È buono!”. Altri invece dicevano: “No, inganna la gente!”. 13Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei.

Questo brano di Giovanni mostra il confronto tra due sguardi interessanti sulla festa: quello dei parenti di Gesù, che Giovanni chiama “fratelli” e quello dello stesso Gesù. Nel vangelo di Giovanni il ruolo dei parenti di Gesù è di incarnare sempre uno sguardo troppo umano e terreno sulla sua missione. Anche qui abbiamo questo fatto ben evidente: la festa è vista da loro come una occasione pubblica adatta ad esibirsi, dove conta l’emozione, dove si può manipolare la folla portandola dalla propria parte. Chi vuol essere un uomo di successo deve usare saggiamente le feste, consigliano i parenti di Gesù, perché le feste possono essere potenti strumenti di consenso popolare.

Nelle feste la gente ama applaudire, acclamare il nuovo re, come sperimenterà Gesù nella Domenica delle Palme, ma la folla con facilità cambia idea, si lascia manipolare ed in pochissimo tempo passa dall’Osanna al Crucifige.

Gesù che non la pensa così, andrà alla festa, ma di nascosto. Gesù vuol vivere la festa delle Capanne, la festa che ricordava l’alleanza d’amore tra Dio ed il suo popolo. Vuol vivere questa festa condividendo con il popolo umile e povero, con gli sconosciuti, per sentirsi parte di questo popolo degli umili e dei credenti. Con la sua presenza, senza vanagloria o strumentalizzazioni rende davvero solenne questa festa, perché in Lui Dio è realmente in mezzo al suo popolo. Gesù non è lì “ad ingannare la gente” come dicono alcuni, ma è lì perché “è buono” come dicono altri.

Fare festa con il popolo, contribuire alla festa, è infatti fare una cosa buona, dare all’identità di Israele, popolo del Signore, popolo che festeggia con il suo Dio, il modo di vivere realmente ciò che la festa significa.

Questa Parola di Dio ci lascia intuire che ci sono due sguardi sulla realtà della festa: quello gretto ed interessato dei parenti di Gesù e quello vero e propositivo dello stesso Signore. Da questi sguardi così diversi, derivano anche due modalità di festeggiare, che potremmo chiamare: la festa della folla e quella del popolo credente.

Per iniziare a comprendere vale la pena di tornare a guardare il nostro tempo di cambiamenti e come anche la festa prenda nuove connotazioni. Oggi la festa è diventata sempre di più un puro momento d’ozio, spesso vuoto e carico di noia. Perciò una festa vuota di senso e di gioia cerca tutto ciò agitandosi e guardando intorno con poco orientamento. Ed ecco che la festa diventa velocemente agitazione, rumore, sballo e lascia delusi.

Tra le nostre case un grande poeta ottocentesco, Leopardi, aveva già intuito che una festa che non arricchisce il cuore di chi la vive, che non mantiene ciò che sembra promettere al cuore dell’uomo, che non aiuta a fare incontri significativi e preziosi. Una tale domenica deludente, fa rimpiangere il sabato del villaggio, così pieno di speranze.

I cristiani invece dovrebbero essere coloro che: sanno vivere la festa, che sanno costruire gli incontri preziosi con gli altri e con Dio, che sanno custodire e trasmettere la memoria grata dei grandi eventi di salvezza, che sanno conservare il ricordo vivo dei santi, uomini e donne che hanno interpretato al meglio ed in modo esemplare la difficile arte di vivere.

I cristiani dovrebbero essere maestri della festa, in cui insegnare a rapportarsi al creato, a contemplarlo e goderlo come se tutto quanto di bello ci circonda fosse una festa e un’occasione di festa.

Perché la festa, quando è vera, non è qualcosa che si consuma. È invece un tempo per rigenerare il proprio spirito ed anche il proprio corpo. E questo fatto è così importante da meritare un comandamento: «Ricordati di santificare la festa» va inteso come un invito a ricordare che c’è un tempo speciale, un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione e si concretizza in un modo nuovo e bello di stare insieme nello spazio, di incontrarsi, di gioire.

Lasciandoci guidare dal pensiero biblico, il pensiero di un popolo che ha imparato lungo i secoli a fare festa con e per il Signore, potremmo indicare cinque punti chiave che caratterizzano una vera festa.

Fare festa è celebrare la vita

Nella bibbia la prima festa la inventa Dio creatore, fermandosi a contemplare e gioire di tutte le cose belle e buone che aveva creato. Vivere la festa è così realizzare una partecipazione comunitaria all’opera di Dio creatore, atto di contemplazione e di comunione nei riguardi di “colui che dona la vita”. Nella festa si portano le cose belle e buone, quelle che ti fanno sentire contento di vivere, per comprendere meglio la preziosità della vita e di ogni vita. Per questo la festa porta a condividere la musica, il cibo, il gioco, l’ironia che dona il sorriso, la sorpresa degli incontri con gente nuova. Sono tutti ingredienti umani che rendono più facile apprezzare il dono della vita. Mentre la festa diventa falsa, anteprima di morte e non di vita, se lasciamo che sia dominata dalla confusione, dallo sballo, dagli eccessi dell’alcol, dalla violenza dello scontro. Queste forme esteriori positive aiutano a vivere la festa, ma la festa cristiana non può limitarsi ad esse, ha bisogno di fondarle su una motivazione interiore, su un incontro col Signore della vita che svela il segreto profondo della speranza e della gioia. La vera festa non separa mai la vita dello spirito da quella del corpo, perché un corpo senza spirito ben presto si affloscia e muore.

Fare festa è entrare in un tempo “nuovo” di libertà

Il popolo biblico, narra il libro dell’Esodo, fuggì dalla schiavitù egiziana per andare a fare festa per il Signore nel deserto. Nel deserto non c’è posto per lo spreco e lo sfarzo, nel deserto c’è solo l’essenziale, ma questo basta per fare “una festa per il Signore”. La festa non può essere un tempo determinato dalle logiche schiavizzanti, competitive e di interesse economico, che dominano gran parte del nostro quotidiano. Una festa cristiana non dovrebbe mai dimenticare che libertà e povertà sono tanto legate tra loro. Più ricorriamo la grandezza, lo spreco, l’accumulo di beni e di denaro e più ci allontaniamo dalla vera festa del Signore. I bambini, che sono i veri maestri della gioia e della festa, spesso sfuggono i giocattoli preziosi e complicati, per divertirsi con gli oggetti semplici della cucina di casa. Un bambino sano è più interessato a trovare un amico per giocare con poche cose, che di riempirsi la camera di giochi costosi da usare da solo. Una festa del Signore, non si ordina pagandola cara su Amazon, ma costruendola assieme con quelli che si è e con quello che si ha.

Fare festa è vivere la comunione

Le feste nella Bibbia cominciano sempre con un grande raduno, in cui tutti sono invitati ed accolti. Molte feste cominciano con una liturgia di perdono, perché coloro che si sono divisi per una qualche colpa si possano riconciliare. Per questo non c’è nulla di più lontano dalla vera festa cristiana che costruire una festa “contro” qualcuno: marcando divisioni, contrapposizioni, confini. La festa ha per sua natura un carattere collettivo, che coinvolge la famiglia, il gruppo sociale, il villaggio, l’identità regionale o nazionale. Tutti sono chiamati a partecipare all’azione festiva e a condividere l’esperienza rituale ed orante. La celebrazione religiosa nella festa deve perciò essere costruita perché sia: inclusiva, bella, attraente, capace di essere capita e sentita da tutti come un momento di gioia e di proposta positiva. È sempre più difficile riuscirci in un mondo in cui tanti sono lontani da Dio e dalla preghiera, ma ritengo sia una tentazione subdola quella di progettare una festa parrocchiale in cui la preghiera è vissuta a parte “da chi ci crede” rispetto alla festa esteriore degli altri. Magari con la scusa di dire che così: si può fare una processione più devota, una messa più solenne, una preghiera intima e sentita.

La sfida di celebrare nella festa una vera comunione delle persone, quindi dei loro corpi e delle loro anime, forse costringerà a liturgie più semplici, a gesti sacri più immediatamente comprensibili, a canti più popolari e coinvolgenti. Precessioni partecipate, che non toccano subito le vette del raccoglimento e rinunciano a proporre testi complessi e teologicamente “alti”, possono essere quei portali attraenti delle antiche cattedrali, che spingevano i pellegrini curiosi ad entrare.

Il bisogno di comunione, di sentirsi accolti da Dio e dagli uomini, è ancora oggi forte nel cuore di tanti, la celebrazione semplice ed attraente, quando il popolo canta e racconta le meraviglie di Dio nella storia, prova a rispondere a questa sete e così consolida l’identità comunitaria e rafforza la comunione. La festa supera le differenze e crea nuovi ponti di comunicazione e di condivisione.

Fare festa è condividere la memoria della salvezza

Al centro di ogni festa biblica c’era la narrazione di un atto di salvezza, che stimolava la gratitudine e la lode e dava sostanza alla speranza che in futuro Dio ci avrebbe salvati di nuovo. Nell’antico testamento Dio viene festeggiato per ciò che ha compiuto in favore del suo popolo, nel Nuovo Testamento, il fulcro del racconto è costituito dal sacrificio di Gesù e dai segni che egli ha compiuto in favore di coloro che credono.

Dal racconto dell’esodo a quello della Pasqua di Gesù, la dimensione festiva è celebrazione di salvezza, memoria festosa i cui effetti permangono nell’oggi. Così una festa senza memoria non è una festa cristiana.

Non si può vivere una festa senza che ciò che vediamo, ciò che udiamo, ciò che facciamo, non abbia almeno un legame col motivo della festa, con la memoria che le dà sostanza. Per un minimo di decenza nessuno penserebbe di festeggiare la memoria del santo patrono con una sfilata di modelle che propongano l’ultima moda di intimo femminile. Ma quante feste costruiamo dove l’attrazione che raduna il popolo non ha nessun legame con la memoria che vogliamo celebrare, quando non ne sia una palese contraddizione. Che questo modo di fare permetta di raccogliere soldi per fare del bene, diventa sempre di più un alibi poco credibile. Il bene materiale che possiamo fare con quelle somme, se contraddice al bene spirituale di cui la gente ha altrettanto bisogno, avremmo fatto un magro affare. Una festa ben fatta, che fa crescere davvero la convinzione che: siamo un solo popolo di Dio, ispirato dall’esempio dei suoi santi, attento ai piccoli ed ai poveri come a veri fratelli, stimolerà la carità e ci farà trovare in maniera altrettanto efficace, ma più vera e buona, i mezzi per fare del bene.

Fare festa è aprire uno sguardo di speranza

La festa cristiana è esperienza di incontro di varie generazioni: siccome la parrocchia è primariamente costituita dalle famiglie che abitano nel suo territorio la festa cristiana si connota come festa familiare. È festa che unisce in maniera preziosa perché rara nel mondo di oggi, giovani e adulti, vecchi e bambini. Nella festa il messaggio di fede, il messaggio identitario, la responsabilizzazione nei confronti della comunità ed il protagonismo nel vivere ed organizzare la festa, passano da una generazione all’altra. I piccoli li apprendono dagli anziani ed i giovani e gli adulti dovrebbero essere i protagonisti come organizzatori e responsabili della festa. In una comunità ideale questa dinamica di passaggio della fede e della responsabilità da una generazione all’altra funziona. La festa, perciò, è anche un criterio di discernimento della salute spirituale ed umana di una parrocchia. Quando tutto funziona getta uno sguardo di speranza sul futuro, sulla efficacia nella trasmissione della fede da una generazione all’altra, sulla capacità di lasciare le proprie responsabilità da parte degli anziani e di assumersele da parte dei più giovani, sullo stile di servizio o di potere con cui clero e laici collaborano per il bene della parrocchia, sulla interazione tra parrocchia ed istituzioni civili dal comune alla pubblica sicurezza, sulla capacità di integrare nella vita parrocchiale chi viene da fuori, sulla integrazione e la collaborazione tra parrocchie vicine e quindi sul futuro delle UP.

La festa ci parla con criteri oggettivi del presente della parrocchia e da preziose indicazioni su quale sarà il suo futuro. Con un aspetto molto concreto ed interessante per valutare la parrocchia nel suo complesso e le singole persone. Nella festa, in un tempo breve: si definiscono degli obiettivi spirituali, pastorali, si immagine pubblica ed economici, si cerca di realizzarli, si può facilmente fare una puntuale verifica se tali obiettivi sono stati raggiunti. La parrocchia normalmente lavora su tempi lunghi ed è per questo complesso fare delle verifiche del nostro camminare e lavorare insieme, per questo dare uno sguardo credibile al futuro senza una logica di verifica del passato e del presente non è possibile. La festa permette nei tempi ridotti della sua preparazione ed esecuzione di fare una verifica e dare uno sguardo credibile alla festa che verrà. Come vedete la festa cristiana ben vissuta è tutt’altro che un momento secondario e di svago della vita parrocchiale, può essere invece quella quarta colonna che fonda solidamente la vita e l’attività della parrocchia.

Non dovremmo poi mai dimenticare che la festa ci permette di verificare anche quanto la parrocchia sia davvero una porzione di chiesa ed in particolare di una chiesa che si caratterizza come Popolare e Cattolica.

Festa di chiesa cattolica e popolare

La Chiesa è cattolica perché è un incontro di differenze, non un gruppo di simili sulla base di affinità, classe sociale, opinione politica o preferenze spirituali. Certamente la Chiesa in tutta la sua storia ha sempre fatto spazio al suo interno a comunità e gruppi affini, per età, per condizione sociale, per sensibilità spirituali. Ha anche sempre promosso una pastorale per settori e per destinatari. Ma ha sempre cercato di radunare nella festa i differenti gruppi in un’unica assemblea eucaristica. In questo modo soprattutto nella festala parrocchia si rivela essere la “casa di tutti” che garantisce l’accesso all’annuncio senza condizioni, il diritto di appartenenza senza elitarismi e senza preclusioni settarie. Essa, in quanto comunità “vicina alle case” (appunto, para-oikia, paroikia), ha il compito di abbattere muri e confini, costruendo ponti, cercando di essere lievito nella pasta (Lc 13,21), relazionandosi con credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, critici e perplessi, agnostici e indifferenti e intercettando, come ci ricorda la Gaudium et spes: “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”.

La festa offre un’occasione di misurare la nostra cattolicità, anche sfidando la cultura attuale che tende a creare comunità e gruppi contrapposti, rispetto ad una fraternità inclusiva delle tante differenze.

Nella festa emerge e si misura poi il carattere popolare della fede cristiana. Lo stile di Gesù era ben chiaro: se chiamava qualcuno a seguirlo e qualcuno a far parte del gruppo degli apostoli, il destinatario del suo annuncio era però il popolo; quindi, chiamava anche chi non motivato da una fede esplicita, tuttavia, si mostrava interessato a Lui. Perdere il carattere popolare significherebbe perdere la Chiesa. Questo comporta una scelta di linguaggio: Gesù si esprimeva in parabole, con parole semplici, con un linguaggio che tutti potevano capire. Comporta anche una caratterizzazione delle strutture perché siano accoglienti e decorose, ma non elitarie. Le sale di una parrocchia sono ben diverse da un salotto snob: le prime sono facilmente fruibili da tutti, il secondo è costruito per segnare la distanza tra chi fa parte o meno di un club ristretto. Questo si vede in particolare nella festa: il linguaggio, gli spazi, la musica, i cibi, lasciano facilmente capire se quella parrocchia ha a cuore il popolo o un particolare livello sociale. Quando una festa è popolare non “scade di livello”, ma si dimostra più chiaramente evangelica ed ecclesiale.

Verso una conclusione

Il cammino che abbiamo fatto in questi quaresimali aveva l’obiettivo di evidenziare ciò che, in questo tempo di grandi cambiamenti, potrebbe e dovrebbe restare a fondamento della vita delle nostre parrocchie, evitando una logica di chiusura spaventata ed aprendosi al territorio ed alla collaborazione a partire dalle Unità Pastorali.

Le cose dette e consegnate scritte costituiscono quasi una “Lettera pastorale” in quattro capitoli, su cui tornare per fare una riflessione comune, in questo tempo di Sinodo nel quale più che assommare nuovi documenti complessi è utile condividere idee semplici e spero evangelicamente ispirate.

Per affinare il nostro sguardo pastorale e spirituale vi invito in conclusione alla contemplazione del territorio geografico ed umano in cui ogni nostra parrocchia è inserita. È una vera adorazione della presenza di Dio in mezzo alle nostre case da cui tutto deve partire ed a cui deve ritornare. Quel territorio che potremmo identificare con quello delle nostre Unità Pastorali e che in questo breve ma intenso testo della Evangeli Gaudium, Papa Francesco chiama “la città”.

“Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata” (EG 71).

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