Il Giovedì Santo ricordiamo l’Ultima Cena, un momento cruciale della vita di Gesù in cui con gesti e con parole trasmette alcuni punti cardinali del suo vangelo.
Nella Santa Cena Gesù fa una triplice donazione di sé stesso ai suoi.
Prima di tutto ci dona un amore che si umilia, quando si china a lavare i piedi ai suoi commensali. È un gesto unico e “assurdo” sia per il suo tempo che ancora di più per la mentalità egoistica ed egocentrica dei nostri tempi. Servire dall’ultimo posto è amare disinteressatamente e senza retorica. Nella logica di Gesù il servizio dev’essere espressivo di un amore capace di consumarsi, di donarsi non solo senza pretendere un guadagno, ma già sapendo bene che non ci sarà neppure la gloria tributata da chi riconosce il bene che fai. Chi faceva attenzione al lavoro dell’ultimo tra gli schiavi, incaricato di lavare i piedi del padrone quando tornava da un lungo viaggio?
Poi ci dona un perdono così generoso da essere donato in anticipo, quando prevede il tradimento di Giuda ed il rinnegamento di Pietro. Ad ambedue Gesù indica il peccato che stanno per fare contro di lui senza acredine e risentimento, solo con la grande tristezza con cui guarderà i suoi crocifissori scusandoli perché: “non sanno quello che fanno”. Gesù ci perdona perché ha sperimentato fino in fondo la fragilità della nostra condizione di poveri ciechi, che hanno la superbia di ritenersi vedenti, capaci di fare il male ad occhi chiusi. Il suo perdono è offerto e pronto da prima che cadiamo nella buca dei nostri orrori.
Infine, ci fa il dono del pane quotidiano, come farebbe un comune padre di famiglia, e con questo gesto indica la donazione di sé stesso totale e quotidiana. Quando Gesù spezza il pane dice “Questo è il mio corpo” indica il dono completo di sé stesso: “Questo sono io che mi do per voi” e lo fa in un presente che continuerà ogni giorno. Dice Pascal: “Gesù sarà in agonia fino alla fine dei tempi”. Perché l’offerta di Gesù al Padre si ripete ogni giorno, e si incarna in ogni sofferente, in ogni innocente perseguitato, in ogni vittima dell’odio umano.
Alla luce di questo senso profondo delle parole e delle azioni di Gesù, la sua sentenza conclusiva: “Fate questo in memoria di me”, non è solo un invita a ricordare nella mente ma a fare, ad imitare nella vita.
La celebrazione cristiana dell’eucarestia, questo rito nuovo che nasce nel Cenacolo, prende senso e veicola tutto questo: Gesù prese alcuni segni della cena pasquale ebraica, ma li rivestì di un nuovo significato.
La famiglia che si raduna per celebrare la Messa, come le famiglie ebree si radunavano per celebrare la Pasqua, non è però legata dal sangue, ma dalla fede: è la famiglia dei discepoli di Gesù.
Non si celebra poi l’orgoglio di essere parte di un popolo che ha la sua patria sulla terra, ma la gratitudine di essere stati accolti in un popolo, che si raduna “provvisoriamente” sulla terra, ma che ha la sua patria in cielo
Al centro della cena infine non c’è un cibo prelibato e ricco, come l’agnello pasquale, ma il cibo quotidiano del povero: il pane azzimo, e la bevanda dalla gioia semplice, il vino. Noi celebriamo l’amore di Dio, un amore quotidiano, che ogni giorno ci sostiene e ci dona gioie semplici e vere.
In questa serata di adorazione davanti all’eucarestia che significa tutto quanto abbiamo detto sinora e molto altro, siamo chiamati a riorientare, almeno nel desiderio, la nostra vita secondo l’esempio di Gesù.
Il triplice dono che Gesù fa di sé stesso non va disperso e non deve trovare aridità di terreno nello spirito umano. Esso va accolto con fede, assimilato e vissuto ma soprattutto non può non tradursi nel dono dell’amore vicendevole fra di noi, attraverso la concretezza del donare noi stessi agli altri: con franchezza e generosità e nel coraggio eroico di opere che attestino l’attualità dello stesso Cristo che ama.