Il Sacramento della Misericordia – 2° Quaresimale

IL DOLORE DEI PECCATI: Pietro o Giuda?
15-02-2016

Dal Vangelo secondo Matteo  (26,57.69-75;27,3-5)

57Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani.

69Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». 70Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». 71Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». 72Ma egli negò di nuovo, giurando: «Non conosco quell’uomo!». 73Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!». 74Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. 75E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

3 Allora Giuda – colui che lo tradì –, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, 4 dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». 5 Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi.

 

IL DOLORE DEI PECCATI

Secondo l’indicazione della nostra tradizione di fede, la seconda tappa della celebrazione del sacramento della misericordia, è il dolore dei peccati. Si tratta di un sentimento intimo, che costituisce la nostra partecipazione personale più significativa, al sacramento della misericordia che vogliamo ricevere. E’ il dolore dei peccati commessi che apre la via del perdono divino. Ma quando riflettiamo sul perdono di Dio e su quello che dobbiamo fare noi e quello che fa Lui, è bene studiare seriamente lasciandoci guidare dalla Parola del Vangelo. La frase più significativa su questo tema la troviamo nel Padre nostro dove si indica ciò che fa Dio e ciò e che facciamo noi. “Perdona a noi … come noi perdoniamo”. Però in che modo dobbiamo intendere la particella “come”? Forse in senso causativo? In questo caso il nostro perdono sarebbe la causa del Suo, cioè diremmo a Dio: “Perdona a noi a causa del perdono che noi diamo agli altri”. Però secondo un insegnamento che è schiettamente evangelico e cattolico: il perdono viene dalla “libera misericordia” di Dio. E’ un dono immeritato della grazia divina, donato unicamente attraverso la croce e la resurrezione di Cristo e non è mai qualcosa che possiamo guadagnare o meritare. Lo dimostra Paolo con una chiarezza sorprendente: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).  Se dunque il nostro perdono non è la causa del perdono di Dio, in che modo dobbiamo intendere quella particella “come” nella richiesta “Perdona a noi … come noi perdoniamo”? Nel perdono cosa fa Dio e cosa dobbiamo fare noi? La risposta più saggia sembra questa: se la nostra volontà di perdonare non è la causa che muove Dio a perdonarci, essa è tuttavia la condizione che rende per noi possibile ricevere il suo perdono. Il perdono è immeritato, ma non è incondizionato. Dio, da parte sua, desidera sempre perdonarci.

Il perdono però non deve soltanto essere offerto, ma anche accolto. Dio bussa alla porta del cuore umano come insegna l’Apocalisse (cf. Ap 3,20), ma non abbatte la porta; siamo noi che dobbiamo aprirla. Se, nonostante il vivo e inesauribile desiderio di Dio di perdonare, noi induriamo il nostro cuore e rifiutiamo il perdono agli altri, allora molto semplicemente ci priviamo della capacità di accogliere il perdono di Dio. Chiudendo il nostro cuore agli altri, lo chiudiamo anche a Dio, rigettando gli altri, rigettiamo Lui, noi stessi ci escludiamo dal Suo amore risanante. Dio non ci esclude, siamo noi che ci escludiamo da soli.

E’ quanto accade di fatto a Giuda che si chiude al perdono di Dio, perché non perdona il più “prossimo” tra il suo prossimo, che è sè stesso. Giuda infatti riconosce la sua colpa, diremmo che fa l’esame di coscienza, poi soffre per il peccato commesso, ma questa sofferenza è chiusa a Dio ed anche a sé stesso, ed agli altri. Giuda non chiede perdono a Dio, non lo domanda ai suoi compagni i discepoli e soprattutto non lo offre a sé stesso e si uccide. Il vangelo lo mostra chiaramente chiamando il suo dolore: “rimorso”. Questa sofferenza fa di lui un disperato, non un penitente che soffre per il suo peccato. Il disperato è troppo orgoglioso per perdonarsi e così si chiude al perdono di Dio. Capostipite e modello di tutti i disperati è Caino che dopo avere ucciso il fratello Abele dice: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono» (Gn 4,13). Un suo ottimo discepolo, che ha addirittura superato il suo maestro di disperazione, è stato Giuda: ha riconosciuto la sua colpa: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente», ma, non credendo che l’amore di Gesù fosse più grande del suo peccato, incapace di credere nel perdono e quindi di perdonarsi… «andò ad impiccarsi» (Mt 27,4-5).

Il dolore dei peccati commessi, è così un sentimento che può avere due origini da distinguere bene: se giunge dall’istinto e dalla rabbia di essere imperfetto, da quel sentimento che chiamiamo “rimorso”, è un dolore che non sana e non apre il cuore al perdono, ma lo rinchiude in sé. A questo sentimento tutto psicologico: il rimorso, si oppone invece un sentimento Pneumatico, cioè spirituale, generato dallo Spirito Santo. Abbiamo visto la volta scorsa che la voce dello spirito del male dal nostro intimo grida: Dio non ti ama, non è tuo padre, tu sei solo con il tuo peccato, hai fallito e sei senza speranza. E’ questa voce che genera il rimorso, ed il rimorso non salva. La voce dello Spirito invece ripete “abbà”: Dio è tuo Padre e ti ama, non ti lascia solo e bussa alla porta del tuo cuore ripetendoti: nessuno ti separerà dal mio amore in Cristo Gesù. Questa voce genera un sentimento di sofferenza, di dolore spirituale, perché comprendiamo che l’amore di Colui che abbiamo rinnegato è vero e grande, molto più grande di quanto magari pensavamo che fosse, ma questo dolore si mescola alla speranza e si apre alla certezza del perdono. E’ questo il dolore di Pietro che permette al suo cuore indurito di sciogliersi in lacrime: “E, uscito fuori, pianse amaramente” dice il vangelo. Pietro non esce soltanto fisicamente dal cortile del Sommo sacerdote dove hanno condannato Gesù, ma esce anche dalla sua situazione di chiusura interiore, fa un Esodo, come suggerisce il verbo greco, un vero cammino di conversione.

L’amore del Crocifisso, che perdona i suoi uccisori, è la realtà sconvolgente che fa nascere il dolore nel cuore del peccatore. Come è accaduto a Pietro, che pianse amaramente per aver tradito colui che anche per lui stava donando la vita. Proprio perché il dolore nasce dall’amore di Dio per noi, esso non può rimanere solo dolore, ma diventa anche certezza della salvezza, certezza che non saremo mai abbandonati. “Chi potrà separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù” (Rm 8) dice S. Paolo.

L’amore di Dio è il fondamento del dolore, ma anche della speranza. Il peccatore nel fondo della sua fede conosce questo amore che non può mai andare perduto per lui, e questa è la prima causa che rende possibile il pentimento. Solo mettendosi dal punto di vista di Dio il dolore diventa perfetto. Quello che veramente conta perciò è il motivo intimo della conversione: deve essere Dio e l’amore per lui. Potremmo chiederci se ci siano altri motivi buoni per essere addolorati del proprio peccato, oltre all’amore di Dio.

E’ un territorio intimo in cui bisogna fare un buon discernimento ed educare il cuore, infatti molte persone si addolorano più per se stesse che non per Dio. C’è chi si addolora perché non è riuscito ad essere come avrebbe voluto ed è ferito nel suo orgoglio. C’è chi non è riuscito a mantenere una promessa fatta agli altri e si sente sminuito agli occhi altrui. Questi tipi di dolore non aiutano la conversione vera se non vengono smascherati e superati. Prima di tutto perché non hanno niente a che fare con Dio, anzi si dimenticano di Dio per concentrarsi sul nostro io. Poi perché molto spesso conducono alla paralisi ed allo scoraggiamento. Se vedo che non ce la faccio a vincermi, invece di impegnarmi di più, lascerò pian piano ogni sforzo per migliorarmi. Il motivo per cui tante confessioni sembrano inefficaci nella nostra vita potrebbe essere proprio questo falso dolore dei peccati.

Il vero dolore dei peccati invece, si concentra sull’amore di Dio, e vede non solo i peccati commessi, ma anche tutta la propria vita lontana da Dio. E’ quel sentimento di tristezza per la lontananza dalla casa del padre e da tutto il bene che là si vive che mette in moto nel cuore del figliol prodigo la volontà di alzarsi e di uscire dalla sua vita di peccato: “mi alzerò ed andrò da mio Padre” dice. Il testo del vangelo è molto significativo, perché il verbo alzarsi in greco vuol dire anche risorgere. E’ guardando alla casa del padre ed al suo amore che il figliol prodigo inizia la sua resurrezione e che la resurrezione di Cristo inizia ad operare la salvezza nel cuore di ogni figlio prodigo. Poi egli dice “mio” padre. Non si concentra può su di sé, ma apre il cuore alla relazione che lo lega al padre e questo inizia a sanarlo. Così compare il desiderio di estinguere questa vita di peccato per lasciare il posto alla “novità” dell’amore di Dio e, quindi, alla speranza. Se vogliamo usare un’immagine, è come se il peccatore vedesse sè stesso come un morto al quale il Signore risorto offre la possibilità di rientrare nella vita. Il Signore ci dona qui una parte della sua vita eterna, e il dolore della confessione è come un raggio della vita eterna che entra nella situazione di morte in cui si trova il peccatore e lo illumina e lo conduce alla rinascita. Il dolore vero dei peccati proprio perché fa entrare in comunicazione con la luce di Dio, diventa stimolo potentissimo all’azione, al cambiamento. Mentre il dolore falso scoraggia, il dolore vero porta alla trasformazione dell’essere: il cristiano addolorato non vuole stare più lontano dal Signore e cerca la strada del ritorno, che significa la strada della conversione.

Mi rendo conto che ho insistito molto su questo passaggio e qualcuno potrebbe dire: “che senso ha tutto questo discorso sul dolore, quando poi ho sperimentato che quasi sempre tutto ritorna come prima?”. Dopo la confessione ritorna tutto come prima? E’ proprio vero? Solo se si ha una fede limitata e un amore povero si può pensare questo. Può pensare cosi solo chi guarda a sè stesso e alle sue impossibilità invece di guardare a Dio e alla Sua onnipotenza. Dobbiamo ripeterci più spesso la parola di Gesù: “ciò che impossibile agli uomini è possibile a Dio” (Lc 18,27). In tal modo la confessione ripetuta con fedeltà porta sempre qualche cosa di nuovo. Se non altro il desiderio sincero di stare vicino a Dio e di non tollerare la lontananza da Lui.

Se comprendiamo così correttamente il sacramento della misericordia appare chiara l’enorme sproporzione fra ciò che fa Dio e ciò che dobbiamo fare noi, ma è anche chiaro che qualcosa di rilevante tocca anche a noi ed è tenere lo sguardo del cuore ben fisso sull’amore di Dio per me, che si è rivelato nella croce di Cristo. Per questo la nostra tradizione mette i crocefissi nelle chiese e spesso anche nei confessionali. Ricordo il mio parroco, che quando iniziava la confessione di noi ragazzi in sacrestia dava sempre uno sguardo ad un grande crocifisso appeso al muro, era un semplice sguardo, ma ci insegnava a dove volgere lo sguardo del nostro cuore.

 

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