Dal Vangelo di Luca
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in sé stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
ACCUSA DEI PECCATI
Nella percezione emotiva di quanti si confessano dire i propri peccati al confessore è il vero centro della celebrazione del sacramento della misericordia, probabilmente perché è il passaggio che percepiamo come più pesante ed esigente. Quando qualcuno ci fa soffrire e ci dice solo genericamente che è pentito, per esserne certi vorremmo che ci indicasse in dettaglio ciò che ha fatto. Solo sentendo dalle sue labbra una descrizione chiara e netta di tutti i particolari della sua offesa, che noi abbiamo dolorosamente scolpiti nella nostra memoria, cominceremmo a credere che davvero si è accorto di ciò che ha fatto, di quanto ci ha fatto soffrire.
Nelle discussioni tra offeso ed offensore la gran parte delle parole si consumano descrivendo l’azione delittuosa, che l’offensore liquida come semplice e quasi inesistente, mentre l’offeso arricchisce ogni volta di particolari dolorosi. Siamo fatti così e così funziona tra noi.
Anche nella parabola del Figlio prodigo questo passaggio dell’accusa dei peccati prende importanza, tanto che san Luca lo racconta due volte: quando il figlio si prepara il discorsetto e quando lo fa davanti al Padre. “Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio”. MA, dice il vangelo, il Padre non si ferma ad ascoltarlo, non fa come noi che avremmo sottolineato il peccato commesso, magari chiedendo di dettagliare meglio, per essere sicuri del fatto che si fosse reso conto fino in fondo del suo peccato. Sembra che al Padre il ricordo dettagliato del peccato commesso dal figlio non interessi. Gesù ci dice che Dio è così, è diverso da noi, non è interessato al peccato, ma al peccatore, non guarda al passato ma verso il futuro.
Tra l’altro il Padre della parabola sa bene che il discorsetto di autoaccusa del figlio, preparato a tavolino, anche con i toni un po’ melodrammatici del pentimento massimo: “non sono più degno di esser chiamato tuo figlio”, non indica un pentimento perfetto e pieno, ma solo la forza della fame e del desiderio del figlio di tornare a star bene nella casa del Padre. Tuttavia questo basta al Padre per perdonarlo. Il Padre sa che noi ci pentiamo davvero solo dopo l’abbraccio che Lui ci dona. Quando la forza del suo amore generoso ed inaspettato ferisce il nostro cuore e lo fa commuovere e piangere davvero. Di tutta l’accusa del figlio, ciò che il Padre apprezza, è che cominci con la parola “Padre” e si chiuda dicendo “non sono degno di essere chiamato tuo figlio”, invece che “non sono più tuo figlio”. Il Padre apprezza che questo figlio peccatore abbia ancora una sola granitica certezza: sa di essere, nonostante tutto ciò che ha fatto, un figlio che ha ancora e sempre un Padre dotato di un amore eccezionale. Un amore misericordioso, nel quale crede fermamente, su cui sa che può contare sempre. Il figlio prodigo ha poco pentimento, ma tanta fede nell’amore misericordioso del Padre, e questo lo salva, perchè in fin di tutti i conti è sempre la fede nel Padre, cioè la fiducia sconfinata in Lui e nel suo amore misericordioso, che salva l’uomo.
L’accusa dei peccati perciò non serve certo a Dio che sa tutto, né serve al confessore, se non per testimoniargli il nostro desiderio sincero di allontanarci dal male. Invece probabilmente e più di tutto serve a noi, perché solo guardando in faccia il male commesso, chiamandolo chiaramente per nome, riusciamo ad oggettivare il nostro vago sentirci peccatori. Solo così quel cammino del cuore di distacco dal male e di avvicinamento progressivo ad una vita nuova, che il sacramento dovrebbe realizzare, inizia a compiersi.
Se serve soprattutto a noi questa accusa dei peccati, non ha proprio senso che contenga menzogne, né nel contenuto, né nel tono con cui la esprimiamo. La menzogna è sempre dannosa perché allontana dalla verità e dalla vita, ma soprattutto la menzogna è dannosa quando è una bugia detta a me stesso. Ho perciò tutto da guadagnare nel fare una buona accusa dei peccati.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, un librone che è nato soprattutto dalla cultura e dalla sapienza spirituale di un grande santo dell’umiltà ancora vivente: Papa Benedetto XVI, parlando dell’accusa dei peccati cita un bel testo di Sant’Agostino, tratto dalle sue omelie sul Vangelo di Giovanni.
«Chi riconosce i propri peccati e li condanna, è già d’accordo con Dio. Dio condanna i tuoi peccati; e se anche tu li condanni, ti unisci a Dio. L’uomo e il peccatore sono due cose distinte: l’uomo è opera di Dio, il peccatore è opera tua, o uomo. Distruggi ciò che tu hai fatto, affinché Dio salvi ciò che egli ha fatto. […] Quando comincia a dispiacerti ciò che hai fatto, allora cominciano le tue opere buone, perché condanni le tue opere cattive. Le opere buone cominciano col riconoscimento delle opere cattive. Operi la verità, e così vieni alla Luce».
Mettere i nostri peccati alla luce ne riduce tanto la pericolosità. Avete mai visto le grandi lampade che illuminano le sale operatorie? Un medico che vuol curare deve prima vedere bene la ferita.
S Alfonso, un altro grande maestro della vita morale che amava gli elenchi chiari e ben ponderati, dice come deve essere l’accusa dei peccati: umile, intera, sincera, prudente e breve.
Umile, perché potremmo pensare di essere grandi peccatori, ed avere magari l’orgoglio malato di aver fatto qualcosa di grande almeno nel male. Fa sempre bene essere umili, riconoscere che anche nel male commesso siamo dei mediocri.
Intera, perché come per una malattia grave il male va estirpato integralmente. Chi resta affezionato a qualche peccato e cerca di nasconderlo sotto il tappeto, non fa altro che preparare l’anima a caderci di nuovo prima possibile. Poi, se l’accusa non è intera, tutta la celebrazione diventa un atto di sfiducia verso Dio e verso la Chiesa, diventa un peccato in più.
Sincera, perché ci sono sempre tanti modi di dire le cose e l’età insegna scaltrezza e doppiezza molto pericolose. Mi sono sempre piaciute le confessioni dei bambini, che credono davvero al perdono di Dio e per questo cominciano sempre confessando il peccato che sentono più grosso. Hanno fretta di essere perdonati e soprattutto vogliono essere perdonati prima di tutto delle cose più gravi. Questo stile di convertirsi tipico dei bambini piace così tanto a Gesù che lo ha proposto come modello: “se non vi convertirete e non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).
Prudente, perché ognuno deve confessare i propri peccati, non quelli degli altri, che a volte usiamo per mascherare o sminuire i nostri. E’ una tentazione frequente e se non siamo prudenti porremmo caderci con facilità. In questo caso potremmo fare un’accusa dei peccati che invece di allontanarci dal male, scarica ingiustamente tutta la responsabilità sugli altri. E’ una vera imprudenza spirituale, perché ci allontana dalla verità di noi stessi e degli altri. Inoltre, sia il penitente che il confessore, sappiano bene che la materia del male, se trattata con leggerezza, potrebbe scatenare in ambedue fantasie e nostalgie tutt’altro che buone. Chi maneggia materiale contagioso, se è saggio lo fa sempre con prudenza.
Breve, questo consiglio conclusivo sulla brevità della confessione è molto più saggio di quello che potremmo pensare e si collega a quello sulla prudenza. Non nasce dal desiderio di non importunare troppo il confessore, ma dalla esperienza del fatto che la verità è semplice e diretta e chi la cerca non ha bisogno di tante parole. In un libro devoto scritto da un Canonico Lateranense e pubblicato a Macerata nel 1577 intitolato: “Alfabeto della confessione” ho trovato questo bel passaggio che vi leggo nel suo linguaggio antico. Le cose buone con il tempo non perdono di valore: “Errore non piccolo commettono coloro che con parole impertinenti allungano la confessione, perché confondono l’intelletto del confessore sì che giudicare non possa la condizione dei peccati. Cristo comandò agli apostoli che dovessero orar brevemente: quando orate non vogliate parlar molto, perchè il Padre sa di che cosa avete bisogno. Nella confessione non si deve parlar se non quanto bisogna, per espor al confessore li peccati con verità, onde seguirà che essa sarà breve come esser deve e lo dimostrano gli esempi delli famosi penitenti. Breve fu la confessione del re David: io ho peccato al Signore. Breve quella del ladrone giusto: noi patiamo giustamente perché riceviamo pena convenevole ai nostri peccati”.
Perché la confessione sia breve ma intera è necessario, come appare logico, non attardarsi in minuzie, ma indicare i peccati veramente gravi. Il catechismo raccomanda che vengano accusati tutti i peccati mortali, cioè seriamente gravi per la vita dell’anima, commessi e di cui ci ricordiamo dopo aver fatto un buon esame di coscienza. Ma come riconoscere se un peccato è davvero grave?
Prima di tutto un peccato davvero grave e fatto con libertà e cattiveria lo ricordiamo sicuramente. Un esame di coscienza ben fatto, che si apra con una preghiera sincera fatta chiedendo a Dio che ci illumini nel riconoscere i nostri peccati, richiamerà immancabilmente alla coscienza i peccati più gravi. Poi ci possono aiutare i dieci comandamenti, che tracciano i fondamenti di una vita in alleanza con Dio e con i fratelli. Se abbiamo fatto qualcosa che ha rotto chiaramente questa alleanza d’amore con Dio e con gli altri, come dice il Figliol prodigo: “abbiamo peccato contro Dio e contro di te” e di queste azioni dobbiamo chiedere perdono.
Un’ultima riflessione sull’accusa dei peccati, che vi chiedo di ascoltare con attenzione, riguarda il compito del confessore. Questo fratello che sta oltre la grata più come collaboratore di Dio che come giudice, perchè solo Dio può giudicare, ha un compito non semplice in cui saggezza e misericordia devono andare di pari passo.
Per questo un buon cristiano dovrebbe pregare perché lo Spirito santo illumini e sostenga nel loro difficile servizio i confessori. È infatti compito del confessore aiutare come può il penitente a fare una buona accusa dei peccati e può farlo anche con qualche domanda. In questo la sapienza della Chiesa ci pone davanti l’immagine del Padre della parabola, più preoccupato di guardare avanti e di far sentire al figlio tutto l’amore misericordioso che gli viene offerto, che di indagare nel dettaglio e magari con curiosità, su ciò che ha commesso.
La regola che ne deriva è: meglio fare una domanda in meno, che rischiare di rovinare la celebrazione del sacramento, risvegliando sia nel penitente che nel confessore pensieri ed emozioni che invece di allontanare dal male possono darne nostalgia.
Soprattutto nel chiedere il confessore deve tener conto che i comandamenti sono 10 e se il penitente tende a fissarsi su un solo aspetto della sua vita, va aiutato a comprendere la globalità delle scelte e delle azioni. Poi spesso ci concentriamo più sul male commesso che sui peccati di omissione, cioè i doveri e le occasioni di bene che ci siamo lasciati sfuggire. Una domanda posta con garbo in questo ambito, può aiutare il penitente a crescere nel bene.
La Chiesa è così cosciente della serietà di questo servizio del confessore, che se percepisce in un confessore fissazioni non sane, o atteggiamenti inquisitori che mettono in disagio i penitenti, invita l’autorità del Vescovo ad agire in maniera molto seria con il suo sacerdote. I casi fortunatamente sono rari, ma potrebbero esistere. Per questo se un penitente si è sentito seriamente disturbato invece che aiutato dalla modalità di confessare di un sacerdote, prima di tutto lo faccia presente allo stesso sacerdote, con semplicità e carità. Se riceve una rassicurazione umile e serena che il confessore ha compreso l’errore o almeno l’indelicatezza commessa, avrà aiutato il suo fratello sacerdote a migliorare. Se la reazione del confessore alla correzione delicata fatta dal penitente, scatena in lui reazioni esagerate ed arroganti, il penitente valuti con pazienza e misericordia se non sia suo dovere avvisare riservatamente il Vescovo, perché paternamente aiuti il sacerdote a diventare un confessore migliore.
Nella Chiesa si progredisce nel bene aiutandosi gli uni gli altri, non solo i preti fanno crescere nel bene i fedeli, ma anche i fedeli aiutano i loro preti ed il Vescovo a svolgere al meglio il proprio servizio a Dio.
Che il Signore aiuti tutti noi in questo servizio così importante per il bene delle anime.